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Obikà VS Amarituda: sfida all’ultimo assaggio.

Ve la racconto papale papale.

Quando una decina di giorni fa mi è arrivato l’invito per la presentazione del menù invernale di Obikà a Campo dei Fiori, a Roma, io ho storto un po’ il naso.

Insomma, una catena di ristorazione, al centro turistico di Roma, che invita a me, che “ormai” se non c’è una stella Michelin manco esco di casa. Ecco, non mi aspettavo di trovare nulla di che, poi ho deciso di fare comunque il “sacrificio” e accettare l’invito, perchè la curiosità è femmina e io pure.

Mi sono presentata, con la mia bella faccia pizzuta, e ho iniziato a fare domande, la prima tra tutte:

– Ma come mai questo nome giapponeggiante?

E subito m’hanno messo a tacere.

– Guarda che a parte la grafia che richiama il Giappone, “Obikà” è napoletano come termine, e significa “eccolo qua”.

Obikà VS Amarituda : 1-0

palla al centro

Ho cercato di riprendere in mano la situazione dicendo che il Giappone 10 anni fa, quando è iniziata la loro avventura, andava come il pane. Per far intendere che ero donna di mondo. Ma ormai il punto era loro.

Con aria vaga, poi mi sono impossessata di uno dei menù che erano sul tavolo alla ricerca di qualcosa su cui fare domande argute. E niente, praticamente o erano presidi Slow Food oppure prodotti di mia assoluta fiducia o “peggio” ancora entrambe le cose.

A quel punto ho deciso, di buttarla tutta sulla prova assaggio. Alla papilla, si sa, non si comanda. Quella dice il vero, senza pregiudizio di sorta. 

Che vi devo dire, mi hanno convinto, eccome, aggiungo. Queste le chicche che a detta delle mie papille dovete assolutamente provare.

Tagliere di Prosciutti e salumi con caponata alla siciliana. (A parte la caponata che era fatta a mestiere, vi segnalo la mortadella di Prato che non so voi, ma io non l’avevo mai mangiata, e ne vale la pena)

Poi ovviamente, menzione speciale va alle “mozzarelle e specialità” e non potrebbe essere il contrario, visto che sono il fiore all’occhiello. Questa la guida alla loro degustazione. 

La mia preferita la stracciatella di burrata, anche se pure la affumicata su fuoco di Paglia ci aveva il suo bel carattere da approfondire.  

La pizza anche è da provare, lievitate per 48 ore e con la semola a dare croccantezza.

La mia preferita tra le tre proposte è stata quella con la N’Duja stracciatella di burrata e pomodoro biologico, percjhè la N’Duja era quella di Spilinga, e fatevelo dire si sentiva.

E poi i dolci. Tre bicchierini e un cubotto di caprese. Il bicchierino con la crema di ricotta frutta secca e miele ha ricevuto consenso unanime e pure. Io ve l’ho detto.

E pure la caprese, era fatta a mestire, ve lo dice una cintura nera di caprese. Umida e con le mandorle che si sentivano al palato.

E dulcis in fundo, come se i bicchierini non bastassero, in accompagnamento al caffè c’era questo dolcetto che non conoscevo. Il bocconcino “Dai Dai” che prende il nome dall’incitamento che il gelataio faceva alla mula che portava il carretto. Si tratta infatti di una piccola cassatina alla menta ricoperta di cioccolato. L’incarto è ancora quello originale.

Cosa dirvi, a me, spocchia mia iniziale a parte mi hanno convinto. Oltre che a Roma, li trovate con le stesse proposte, pure negli aeroporti, a Milano, Napoli e Firenze e pure all’estero. Questo il loro sito. Fatemi sapere che ne pensate. 

 

Obikà VS Amarituda: sfida all’ultimo assaggio.ultima modifica: 2013-10-18T09:30:00+02:00da
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